La Cassazione puntualizza la distinzione tra danno alla capacità lavorativa generica e specifica

La Cassazione puntualizza la distinzione tra danno alla capacità lavorativa generica e specifica
27 Agosto 2020: La Cassazione puntualizza la distinzione tra danno alla capacità lavorativa generica e specifica 27 Agosto 2020

La controversia decisa dalla sentenza n. 28988/2020 ha offerto alla Cassazione civile l’opportunità di un approfondimento dogmatico in merito alla distinzione fra danno alla capacità lavorativa generica e quello alla capacità lavorativa specifica, questione che ha dato luogo (e dà tuttora) a non pochi malintesi nella pratica forense.  

In proposito la Corte è partita dalla premessa per cui il danno alla capacità lavorativa generica rientra nell'alveo di quello biologico” perché “non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia, in quanto modo di essere del soggetto, in una menomazione all'efficienza psicofisica (Cass. n. 1816 del 25 agosto 2014)”, consistente non già nell’impossibilità di continuare a svolgere un’attività lavorativa, ma nel doverlo fare con maggior fatica e/o più precoce usura.

Ragion per cui tale pregiudizio attiene alla sfera del danno non patrimoniale, che “va valutato unitariamente”, e per il quale può prevedersi la personalizzazione del relativo risarcimento, solo ove ricorrano ben precisi presupposti.

Che si verificano quando “le conseguenze della menomazione” patita dal danneggiato “non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto”, sì da giustificare “un aumento del risarcimento di base del danno biologico”.

A tal fine non basta che la menomazione abbia “inciso, sic et simpliciter, su "aspetti dinamico relazionali"”, quale è pure quello attinente alla generica capacità lavorativa del danneggiato, essendo necessario, invece, che “quella conseguenza sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014)”

Deve perciò trattarsi di “circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età”, essendo in tal caso “consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014)”.

A questo proposito la Corte ha rammentato che “la nozione di incapacità lavorativa generica fu elaborata dalla giurisprudenza in un'epoca in cui il danno biologico non aveva cittadinanza nell'ordinamento e l'unico danno ritenuto risarcibile era quello patrimoniale” con l’intento di “evitare il rigetto della domanda risarcitoria allorché le conseguenze lesive non avessero influito sul lavoro svolto dalla vittima ovvero nell'ipotesi in cui la vittima non svolgesse lavoro alcuno”.

Ma, “una volta emersa la nozione di danno biologico, l'utilità della categoria è venuta meno, considerato che la sussistenza di un danno alla salute legittima il leso a domandare il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali a detta lesione connessi, nessuno escluso”, e quindi anche la personalizzazione del ristoro del danno non patrimoniale, quando ne ricorrano le condizioni, nei termini anzidetti.

Ben distinto rispetto al danno alla capacità lavorativa generica che, come detto, rientra nella sfera concettuale “unitaria” del danno non patrimoniale è quello alla capacità lavorativa specifica, attinente cioè alla peculiare attività lavorativa svolta dal danneggiato e costituito dalla perdita, totale o parziale, del reddito generato da quest’ultima.

Si tratta, in questo caso, di un danno patrimoniale che, come ricorda la sentenza in esame, deve essere risarcito mediante la liquidazione di una somma da calcolarsi “ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima”.

E che come tale presuppone, quindi, non già solo la prova (sul piano medico-legale) dell’effettiva incidenza della menomazione sulla capacità lavorativa del danneggiato, ma altresì l’allegazione e la prova, da parte di quest’ultimo, della perdita reddituale subita.

Tenendo presenti queste premesse, la sentenza ha osservato come “in realtà, l'evento lesivo può incidere in vari modi sull'attività di lavoro dell'infortunato”, affermando che, “se tutti devono avere una adeguata risposta risarcitoria, è anzitutto necessario avere le idee chiare sull'inquadramento dogmatico delle varie fattispecie che è possibile enucleare”.

Di qui l’esemplificazione che la Suprema Corte ha sviluppato in una casistica articolata a seconda:

1) che la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena. È questo il danno da lesione della cenestesi lavorativa, e cioè la compromissione della sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro. Ora, non par dubbio che il danneggiamento della cenestesi lavorativa si presterà di regola a essere risarcito attraverso un appesantimento del risarcimento del danno biologico, in via di personalizzazione cioè, a meno che la maggiore usura, la maggiore penosità del lavoro non determinino l'eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito, nel qual caso, evidentemente, il pregiudizio andrà risarcito come danno patrimoniale (Cass. n. 20312 del 2015);
2) che la vittima abbia perso in tutto o in parte il proprio reddito: non il lavoro, badate bene, ma il reddito, il che significa che non ne produce al momento e non sarà più in grado di produrne in futuro: qui siamo evidentemente di fronte a un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito perduto;
3) che la vittima abbia perso il lavoro ma possa svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale: anche questo è un danno patrimoniale, da liquidare tenendo conto e del periodo di inoccupazione e della verosimile differenza (ove sussistente) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro;
4) che la vittima un lavoro non l'aveva, e non potrà più averlo a causa della invalidità: anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito”.

La prova di un eventuale “reddito futuro”, poi, dovrà darsi mediante “presunzioni gravi, precise e concordanti”.

Altre notizie